Milano, esterno giorno. Signora di mezza età con velleità giovanilistiche (io), sacca nera e borsa colorata cammina a passo spedito verso lo studio dell'oculista.
La sua attenzione viene prepotentemente attirata da una bottega di ortolano che espone in bella vista dei gamboni di rabarbaro che la signora aveva invano cercato di prodursi da sola senza alcun esito.
E' l'impulso di un momento: entrare, spendere 11,30 euri per un chiletto abbondante del prezioso vegetale e poi cercare invano di occultarlo nella sacca.
Dal simpatico oculista la signora si vede costretta a sciorinare la merce e tenere una lezioncina sull'uso del vegetale. Nasconderlo era impossibile, tanto valeva farlo notare ed apprezzare.
Chi scrive di cibo è gente curiosa, colpita da passioni brucianti e contagiose. Le manie sono stagionali ed epidemiche come la spagnola (intesa come influenza). La virulenza è massima e massimo il tasso di dimenticanza appena l'epidemia passa.
Tutti hanno avuto l'aglio orsino, molti il kamut e la quinoa, parecchi il rabarbaro. Le cupacakes sono più selettive e la pasta di zucchero colpisce solo alcuni.
Si cade in deliquio per una ciotolina o una posata arrugginita, si corre a imparare da chi si pensa ne sappia. Si corre, si corre e non sempre a proposito. A volte si resta stupefatti davanti ad un evento che ha gli stessi contenuti dell'orario dell'ATM ma è molto meno utile.
A volte i relatori trasmettono talmente poco che sembrano afoni. Sabato è capitato un po' così, non fosse stato per un molto onorevole prof del Politecnico che in minuti tre ha detto una bella quantità di cose sensate. Sugli altri calerà il mio silenzio.
E la rivoluzione la faccio domani.
Oggi, rabarbaro.